Cosa è cambiato a 9 anni di distanza dall’esplosione del caso Pfas in Veneto? Nulla, purtroppo…

Nove anni dopo l’esplosione del caso Pfas, in Italia non esiste ancora una legge nazionale capace di porre limiti allo sversamento degli acidi perfluoroalchilici, utili quanto pericolosi per la salute.

La mancanza dei limiti ambientali nelle acque di falda, nelle acque di scarico e nei terreni, di fatto impedisce alle autorità competenti di intervenire per imporre i provvedimenti necessari di bonifica delle matrici ambientali contaminate.

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Il dato della relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle attività connesse al ciclo dei rifiuti e su illeciti ambientali appare a pagina 103 del documento presentato pochi giorni fa alla Camera: ha il sapore di un’ammissione di colpa della politica su una vicenda centrale degli ultimi anni.

Il lavoro della Commissione Ecomafie fa il punto sullo stato dell’arte di una contaminazione legata ai nomi di precise aziende e di cui 15 manager sono sotto processo con accuse come avvelenamento delle acque di falda e superficiali e disastro ambientale.

In Veneto sono almeno 400mila i cittadini nel cui sangue scorrono molecole che numerosi studi scientifici associano a immunotossicità, ipertensione, patologie del fegato e della tiroide, alterazione della riproduzione e rischio cardiovascolare, cancro al rene e al testicolo.

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La diffusione dei Pfas riguarda tutto il territorio nazionale, come ribadisce la relazione, e in particolare le regioni del bacino del Po e dell’Arno per le numerose attività che utilizzano le molecole. Le Arpa regionali si sono attivate solo nel 2017 e, nel caso di Lazio e Toscana, hanno fatto controlli solo su nove e sei sostanze (anziché sulle dodici canoniche); nessuna ha cercato il cC6O4. I casi più gravi sono localizzati nelle regioni Veneto e Piemonte, ma la Commissione ha accertato che la diffusione dei Pfas si riscontra in tutto il territorio nazionale e, in particolare, nelle Regioni del Nord, tenuto conto della molteplicità delle attività produttive in cui vengono impiegate le sostanze.

Il Veneto, perché più colpito, ha svolto alcuni studi. Interessante e preoccupante l’indagine epidemiologica condotta sulla popolazione residente nella Zona Rossa. Si rileva un eccesso statisticamente significativo di mortalità per cardiopatie ischemiche (uomini +17%, donne +14%), malattie cerebrovascolari (uomini +21%, donne +11%), e, limitatamente al sesso femminile, per diabete (+23%) e Alzheimer/demenza (+16%). Inoltre, un eccesso statisticamente significativo di prevalenza per ipertensione, diabete mellito, malattie cerebrovascolari, ipotiroidismo e dislipidemia. A tutto ciò si aggiunge un eccesso di rischio per diabete gravidico, neonati con peso basso per età gestazionale, difetti congeniti del cuore e anomalie congenite del sistema nervoso.

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Eugenia Dogliotti, direttrice del Dipartimento ambiente e salute dell’Iss, ha riferito che “Non è mai partito lo studio di coorte residenziale”, deliberato dalla Regione Veneto nel 2016.

La carenza è generale: mancano su tutto il territorio italiano limiti ambientali nelle acque di scarico, nelle acque sotterranee e nei terreni per tutti i Pfas. Questo non consente alle autorità competenti di intervenire per imporre i provvedimenti necessari di bonifica e alla magistratura di contestare i reati connessi con la contaminazione delle matrici ambientali.

In base a un documento di Ispra, secondo i commissari, “I limiti da fissare per i Pfas presenti negli scarichi delle acque reflue devono corrispondere a zero, cioè, le sostanze devono essere vietate, proprio perché i Pfas sono sostanze pericolosissime e anche piccole quantità scaricate si accumulano nell’ambiente“.

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Se lo Stato non è in grado di intervenire in maniera attiva e rapida su una tematica fondamentale per la salute pubblica, allora la soluzione migliore è proteggersi tra le mure amiche: quelle di casa nostra.

Allo stato attuale delle conoscenze, il trattamento più efficace è l’installazione di un depuratore d’acqua ad osmosi inversa. Un depuratore ad osmosi inversa è composto da una membrana filtrante che trattiene le impurità e produce acqua osmotizzata, ovvero acqua depurata priva al 95-99% di inquinanti, metalli pesanti e sali disciolti.

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Un impianto di depurazione domestica ad osmosi inversa annulla, inoltre, l’eventuale presenza di residui di calcare e di cloro. Così, oltre a proteggere la tua salute, potrai dire addio per sempre all’acqua nelle bottiglie di plastica. E in definitiva risparmierai… perché l’acqua del rubinetto è pressoché infinita e non dovrai mai più preoccuparti dell’approvvigionamento.

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Ps: “depuratore” è un termine usato nel gergo parlato dai non addetti ai lavori, ma non è riconosciuto dal Ministero della Salute perché troppo generico. Nel nostro caso, per “depuratore” intendiamo tecnologie micro-filtranti o ad osmosi inversa per il trattamento domestico dell’acqua potabile.

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