Un uomo di Vigevano, in provincia di Pavia, si è recentemente sentito male dopo aver bevuto una bottiglietta d’acqua da mezzo litro acquistata al supermercato.
Anche se non sono stati resi noti la marca ed il lotto contaminati, l’immediato ritiro dell’acqua dagli scaffali provoca una certa allerta.
Sarebbe stato importante segnalare la marca così da evitare eventuali problemi ad altre persone, in attesa dell’eventuale conferma che arriverà dalle analisi.
Secondo quanto scrive La Provincia Pavese, però, ad essere finito nel mirino sarebbe un lotto di acqua minerale venduto da Lidl che l’uomo aveva comprato 2 giorni prima di aprire e bere l’acqua in bottiglia.
Il lotto incriminato è stato richiamato da tutti i punti vendita del marchio a scopo precauzionale e si è in attesa di aggiornamenti da parte dell’autorità.
L’acqua, almeno apparentemente, non presentava anomalie neppure nell’odore.
E se ci pensi è davvero inquietante.

Come ormai ampiamente documento da diverse fonti scientifiche, la plastica PET (polietilene tereflalato – materiale presente nella gran parte di bottiglie in plastica) rilascia, a contatto con l’acqua, l’antimonio, che l’IARC (International Agency for Research) ha classificato nella categoria 2B – fattore quindi che può provocare il cancro.
Il PET è una materia plastica leggera, resistente alle alte temperature e facilmente malleabile che si presenta sotto forma di granuli prima fusi e poi trasformati in provette.
Queste provette vengono successivamente inserite in forni ad una temperatura di oltre 100 gradi, in modo da diventare ancora più malleabili, pronte per essere soffiate e trasformate in bottiglie.
Il passaggio nei forni però – come afferma Silvano Monarca, docente di Igiene generale e applicata all’Università di Perugia – può far rilasciare alcune sostanze. Tra queste sostanze troviamo l’Acetaldeide e la Formaldeide e cioè composti volatili, cancerogeni e genotossici che possono migrare nell’acqua presente nella bottiglia.
Non a caso, i ricercatori hanno riscontrato la presenza di queste due sostanze all’interno dell’acqua delle bottiglie, riportando valori superiori a quelli tollerati dalla legge.
Ad esempio, uno studio pubblicato dalla California’s Department of Resources Recycling and Recovery ha trovato 29 sostanze che dalla bottiglia di plastica possono migrare nell’acqua. Tra queste l’Antimonio e il Benzofenone (possibili cancerogeni) oltre al Fenantrone che è un idrocarburo.
Viene quindi naturale chiedersi cosa succede quando le bottiglie d’acqua vengono trasportate dai camion e lasciate cuocere sotto al sole in piazzali dove le temperature raggiungono oltre 50 gradi e poi stoccate nei depositi dei supermercati per mesi interi.
Le sostanze tossiche che dalla bottiglia di plastica possono migrare nell’acqua hanno dei limiti ben precisi. Per evitare rischi sanitari le aziende hanno l’obbligo di analizzare la migrazione di queste sostanze attraverso delle analisi di laboratorio periodiche. Purtroppo, come mostrato dal servizio di Report su RaiTre, i test vengono effettuati a campione e le analisi vengono effettuate da 1 a 3 volte l’anno.
La legge in materia di sicurezza imposta il valore di 60 milligrammi per litro come limite delle sostanze chimiche e tossiche che dalla bottiglia possono migrare nell’acqua.
Ma il Professor Monarca mette in dubbio il test consigliato dall’Europa per analizzare queste sostanze.
Il test indicato dalla legge infatti, si conclude con l’evaporazione dell’acqua. Peccato che a 100 gradi tutti i composti volatili e semivolatili si disperdono e quindi gli elementi non possono più essere pesati.
Monarca ha analizzato un campione dello stesso lotto utilizzando il test Europeo e il test della Liofilizzazione, che non prevede l’evaporazione dell’acqua. Con il test Europeo sono stati rinvenuti 16 milligrammi di sostanze per litro, mentre il nuovo test della Liofilizzazione ha riscontrato un valore di 121 milligrammi litro, cioè il doppio del valore consentito dalla legge.
Stranamente (ma non troppo), chi lavora da molti anni nel settore degli imballaggi alimentari denuncia diversi buchi nel processo di controllo. Le analisi vengono effettuate poco e male, molte aziende non hanno le strumentazioni necessarie e l’alternativa è quella di rivolgersi ai laboratori accreditati a fronte di una spesa molto elevata che scoraggia la maggior parte delle aziende ad effettuare le analisi con più frequenza.
La soluzione, sempre secondo chi lavora nel settore, è quella di svolgere controlli più frequenti, analizzando un campione per ogni lotto prodotto. Questo ad oggi sembra essere un’utopia.
Infatti le aziende, rispettando ciò che la normativa indica, effettuano due o tre controlli all’anno su migliaia di tonnellate di prodotto…
… mettendo a rischio la tua sicurezza!

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